La Scuola dei Papà – Pog – Recensione

“Una piccola fila indiana attraversa la foresta.
Sono i futuri papà che oggi tornano a scuola.
Si trascinano un po’.
Alcuni di loro non hanno voglia, proprio nessuna voglia, di andarci.
Ma non hanno scelta:
le mamme li hanno iscritti affinché siano pronti per il grande giorno”.

Eccoli dunque alla Scuola dei Papà, non una scuola come le altre, qui non impareranno né matematica né coniugazione, no, dovranno superare loro stessi in un giorno ed una notte…i futuri papà Coniglio, Orso, Volpe e Procione guidati dall’anziana tartaruga maestra che si aspetta che imparino a memoria un centinaio di filastrocche ed a cambiare un pannolino ad occhi chiusi.

“Affiderò a ognuno di voi un mio uovo.
Dovrete prendervene cura […] e, soprattutto,
riportarmelo tutto intero domani mattina”.

Tra la teoria e la pratica sappiamo che c’è una bella differenza… papà Coniglio, Orso, Volpe e Procione riusciranno a dimostrare di essere non tanto brillanti scolari quanto piuttosto dei bravi papà?
Ogni papà esce da scuola con il suo uovo e cerca di fare il meglio che può con quello che ha.

Papà Procione al suo uovo canta una canzone, papà Orso gli racconta delle favole, papà Coniglio invece lo dipinge tutto, mentre papà Volpe… beh lui è quello che sceglie la soluzione più pericolosa di tutte!

Non è facile fare il papà, perché non è facile prendersi cura di qualcosa e qualcuno di delicato come un uovo, ma questi quattro (futuri) papà ce la mettono davvero tutta per svolgere il prezioso compito…ovviamente con finale a sorpresa! 😉

La Scuola dei Papà di Pog, con le illustrazioni di Clotilde Goubely edito da Il leone Verde Piccoli, è una storia tenera e simpatica per bambini dai 3 anni.
Una vera e propria celebrazione del legame padre-figlio fatto di coccole ed accudimento.

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Vivi la Vita: una storia vera

scrivere

L’ABC del morire, partire senza partire, amare ed abbandonare e il peso insopportabile del sapere

Mi è stato chiesto di scrivere la mia storia dentro la malattia. Ci ho pensato a lungo in questa settimana, ne ho accennato ai miei, ho provato a costruire tracce, percorsi, ipotesi di stesura.
E’ una settimana difficile: al suo termine mi aspetta una serie di esami di controllo e, come al solito, l’ansia è difficile da tenere a bada. Ancora una volta il mio equilibrio (così precario!) si sgretola ed io arranco alla ricerca di…. accettazione, ignoranza, pace, che altro… non so bene.

Allora riparto, vado a leggere gli sfoghi e le riflessioni che di tanto in tanto in questi anni ho affidato alla carta, quando proprio non ne potevo più, mi sentivo le parole premere in gola come un grido di aiuto troppo a lungo trattenuto e che non sapevo a chi rivolgere.
La carta sopporta così tanto!!
Rileggendo qua e là ho trovato una citazione che forse ben riassume ciò che ho cercato di fare, ciò che credo tutti coloro che entrano nel “pianeta cancro” devono affrontare:

“Questo è ciò che col tempo bisogna imparare
L’ABC del morire
Del partire senza partire
Dell’amare e dell’abbandonare
E il peso insopportabile del sapere“

Ebbene ho aperto il mio abbecedario nell’ottobre del ’97: un nodulo percepito con l’autopalpazione, la trafila della diagnosi, l’attesa del responso con la prima altalena di speranze e timori. Una settimana di viva angoscia dalla quale trovo riparo solo nel lavoro e nell’abbraccio di mio marito. Così trascorro le giornate a scuola e le sere rincantucciata sul divano, chiusa nel cerchio delle sue braccia, appoggiata a lui sia fisicamente che psicologicamente. Con lui mi reco all’ambulatorio per sentire gli esiti dell’esame: confermano la presenza della malattia. Bisogna operare.
Di fronte al medico mi controllo, poi crollo. Tutti mi sono molto vicini nel periodo di attesa tra la diagnosi e l’operazione; temevo molto la reazione di mia madre all’annuncio della malattia, mi appare ormai così fragile emotivamente. Invece reagisce, la preoccupazione la sprona a trovare cose da fare per aiutare. Vedo lo sgomento negli occhi di mio padre, ma fra noi le parole sono sempre state poche e i gesti parchi. Anche in questa occasione, come poi molte altre volte, un abbraccio dato con i lucciconi agli occhi, il mio solito saluto: ”Ciao Pa’, fai il bravo, mi raccomando”. E il suo: “Me racumandi a ti, tusa!”
La zia mi esorta a rivolgermi a Dio, a pregare, a chiedere il suo aiuto che non mancherà. Il mio rapporto con Dio è certamente presuntuoso: sono credente, non praticante, la Chiesa non mi convince con le sue gerarchie e manifestazioni. Lui ed io conversiamo “in proprio”, ma in questa occasione mi trovo a pensare: ”Perché dovrebbe donare la guarigione proprio a me? Cosa faccio io di speciale perché mi preservi, mi sani? Come osare chiedere questo quando tanti altri soffrono più di me?” E così la preghiera unica, veramente sentita, è sempre la stessa: “dammi la forza di affrontare questa cosa, un passo alla volta; non mi abbandonare, altrimenti non ce la farò mai.”

Arriva l’operazione, passa e dopo di essa la radioterapia.
Appena posso torno a scuola: i bambini e il loro affetto, le colleghe e amiche e il loro calore sono un balsamo. In questo periodo devo ritrovare me stessa, ma non so quale me stessa voglio ritrovare. Forse quella proiettata in fuori, disponibile, che si impegna, perché mi darebbe la sicurezza del ritorno alla normalità. D’altra parte c’è la voce di V., con la sua esperienza di questa nostra malattia, e il suo suggerimento a fare ciò che mi piace, a vivere per me e non per gli altri.
Ma io come sto?
Mi dicono che “sono guarita”, ma mi vogliono controllare ogni pochi mesi e che ciò continuerà per anni.
Crolla e si frantuma un baluardo: non sono immortale.
Fino a ieri la morte, la malattia erano degli altri. Ora sono miei e il mio cuore e la mia mente devono fare i conti con l’incertezza e la paura del domani.
Mi scontro con le esortazioni alla calma e a controllare la paura, mi mandano in bestia.
Sembrano accusarmi di essere un’ansiosa.
Beh, è vero sono ansiosa: ho paura che a mia figlia possa capitare qualcosa di male e, ora che ho toccato il “pianeta cancro” temo veramente la malattia, il tradimento del mio corpo, la sofferenza fisica che pure finora non ho sperimentato e la morte che ha assunto una concretezza assai diversa.
Chi mi invita alla calma pensa di aiutarmi a razionalizzare, ad arginare il panico. Eppure sono parole che scatenano in me il rifiuto, la rabbia. Le ragioni del mio star male sono sacrosante, ma odio pensare che gli altri mi vedano come una piaga, una che si piange addosso. Però so che non voglio tacere, nascondermi dietro una corazza data dall’aspetto impeccabile, dall’efficienza, dal controllato silenzio.
Frequento il gruppo “PSICOLOGIA AL FEMMINILE” presso la biblioteca di Corsico, un gruppo aperto di donne con alcune presenze costanti ed altre fluttuanti. E’ uno dei pochi luoghi in cui riesco ad esprimere le mie tensioni, le paure, il disagio. Qui non si è mai giudicate e c’è una profonda empatia che permette di lasciare andare il nodo che chiude la gola, sapendo che le altre si stringeranno a te, piangeranno con te, ascolteranno e parleranno a cuore aperto.
E’ così difficile trovare il momento e la persona con cui parlare quando ne hai così bisogno da sentire le parole spingere contro le labbra.
Ma con chi farlo?
Con mio marito? Lo vedo scrutarmi, so che si preoccupa e si sforza di offrirmi una piacevole quotidianità, di farmi sentire bene e non mi sento di gravare sulle sue spalle con le mie “paturnie”.
Con i miei genitori? Sono in quella fase della vita in cui si comincia a sentirsi genitori dei propri genitori e vorrei poterli preservare dall’ansia per il mio stato.
Con mia figlia? Lei ora è una donna, forte, affettuosa, vicina. Ma è la mia bambina, devo proteggerla dalle brutture e dai dolori del mondo. E’ il mio compito di madre. Che madre sarei se fossi io ad appoggiarmi a lei, a scaricarle addosso tutte le tensioni e le paure, ad offuscare il suo cielo che si sta aprendo ora alla vita.
Con le amiche? So che sono lì, disponibili, basterebbe alzare la cornetta e chiamare. Ma anche loro hanno gli affanni della vita quotidiana da affrontare e troppo spesso mi faccio scrupolo di rivolgermi a loro. Ci sono pomeriggi in cui vorrei che il telefono squillasse per parlare con qualcuno… ma chiedere aiuto è così difficile.
Così spesso taccio, mi sembra di riuscire a darmi un’aria tranquilla e controllata, poi scopro che i miei tentativi non ingannano chi mi sta vicino e mi vuol bene, che talvolta sono loro a sopportarmi facendo finta di non vedere la mia espressione tesa e di non sentire le mie risposte brusche.

Passano i mesi, passano i controlli, vado sempre accompagnata da mio marito, non reggo la sala d’attesa. L’infermiera dell’ambulatorio di senologia mi chiama la signora con il cavalier servente.
Tutte le volte lui esorta il medico a tranquillizzarmi esplicitamente, sono le sole occasioni in cui rivela a me e ad altri che non sono per nulla brava a nascondere le mie emozioni.

E’ morta V. L’ennesima manifestazione della malattia ce l’ha portata via.
Mi sento un verme perché non riesco a disgiungere dal dolore per lei il dolore per me. La mia storia sarà come la sua? Perché? Questa angoscia accompagna i miei giorni, è sempre lì ben chiusa in una piega dell’animo, ma pronta a sgusciar fuori alla prima distrazione. Non mi libererò mai della paura?

Sono trascorsi tre anni. Comincio quasi a crederci, forse sono davvero in salvo, forse in fondo al tunnel c’è davvero il sereno. Forse ha ragione A.M. quando dice che ciò che ci accade è “in questo momento”, ma dobbiamo procedere pensando che il momento passerà.
Proprio mentre sto cominciando a crederci arriva la doccia fredda: dalla scintigrafia ossea: si evidenzia una lesione allo sterno. La malattia allunga ancora i suoi artigli su di me.
Sono terrorizzata, mi figuro scenari tremendi, cosa succederà? Quali terapie? Quali interventi?
Ma soprattutto quale futuro? Anch’io come V. passerò da una ricaduta all’altra in una spirale impossibile da forzare?
Troppe domande che mi spaventano e questa volta non riesco a parlare con nessuno, le amiche mi dicono che appaio distaccata e lontana. F. cerca di starmi vicina e io mi ritraggo; S. mi abbraccia, io la stringo poi devio i discorsi, cambio argomento. Non ho neppure chiamato T. e mi manca il suo viso, il suo sorriso coraggioso, la sua stretta e anche la sua fede. M. è una presenza silenziosa che apprezzo particolarmente, che mi aiuta a stare tra le pareti della scuola, non chiede ma c’è.
Gli alunni percepiscono il mio squilibrio, la mia tensione. Chiedo loro di aver pazienza, accenno a problemi di salute. Capiscono con la saggezza del cuore che rende così ricchi questi piccoli di otto anni e, a modo loro, si sforzano di aiutarmi.

Che sollievo quando le cure si rivelano poco invasive. La terapia ormonale è tollerabile, non limita la mia vita, il suo quotidiano dipanarsi. I controlli però sono diventati ancora più frequenti e io li tollero sempre meno. Vorrei non dover più varcare il portone dell’Istituto, non vedere più questi corridoi, queste sale, questi volti. Mi diventa sempre più difficile venirci da sola, la lettura che prima mi bastava per astrarmi e far passare il tempo dell’attesa ora non è sufficiente. Chiedo a turno ai miei cari di accompagnarmi, ho paura di guardarmi attorno nelle sale d’aspetto e di vedere altri malati, sofferenti, colpiti dalle manifestazioni del male e di riconoscermi in loro, vedere specchiato nel loro aspetto il mio domani.

Al gruppo di Corsico A.M. mi suggerisce di non combattere la malattia, di affrontarla.
Non capisco! Tutti mi dicono che devo combattere il male, vincere il tumore, sconfiggere questo nemico. Cosa avrà voluto dire?
Mi occorrono molti mesi per capire: non combattere contro me stessa; accettare le modificazioni, accettare l’idea della morte per affrontare la vita e le sue richieste e ricchezze; amarmi e non sentirmi colpevole, tradita dal corpo, punita per chissà quali colpe o manchevolezze. Non un atteggiamento contro, ma un atteggiamento per…

Intanto il tumore che sembrava arginato, dopo un anno trova un’altra via per manifestarsi. Questa volta il medico è brusco e mi annienta con la sua laconicità. E’ una malattia cronica – dichiara freddamente.
Al mio terrore si aggiunge lo spavento di vedere per la prima volta le difese di mio marito cedere: ha gli occhi lucidi, fatica a trattenere le lacrime.
Allora sto molto male davvero.
E mi preoccupo per lui, per la mia ragazza. Chi li aiuterà a far fronte a questo nuovo periodo di dolore.
E chi aiuterà me?

Questa volta mi tocca la chemioterapia, l’ho sempre rifiutata nelle mie fantasie. Mi terrorizza e il mio terrore si riversa sull’aspetto più vano, più esteriore: perderò i capelli, nessuno deve vedermi così, non voglio far compassione. Piango e corro a procurarmi una parrucca che sia il più possibile uguale a me: stesso taglio, stesso colore. Per apparire inalterata agli occhi degli altri.
Illusa. Non immaginavo certo che il mio corpo, la mia pelle, tutto sarebbe stato modificato dall’urto dei farmaci.
Mio marito si preoccupa di trovarmi un supporto psicologico presso la struttura ospedaliera, io vorrei che ne usufruisse anche lui. Pensavo fosse possibile un supporto alla famiglia, mi rendo conto che le tempeste emotive che attraversano me, devono per forza scuotere anche loro. Lui è uno che parla sempre poco delle sue emozioni, insisto più volte perché inizi un periodo di supporto psicologico, ma scantona. Il nostro rapporto però si approfondisce, mi accetta anche così malconcia, pelata, brutta, si sforza di scherzare sui miei denti macchiati dal violetto di genziana, sulla mia patetica cuffietta e sulla mia zucca liscia, mi porta in vacanza e se anche talvolta mi chiede prestazioni fisiche che non riesco a reggere (una passeggiata in montagna che mi estenua, la presenza a riunioni e impegni che mi pesano molto) non lo fa certo per superficialità, incuria o distrazione nei miei confronti. E’ il suo modo per dire che ce la posso fare, per avere fiducia in me, per spronarmi a non abbattermi. La sua presenza fisica costante, l’abbraccio, la carezza, il desiderio sessuale che manifesta verso questo corpo che io vedo così poco desiderabile, sono i suoi modi di esserci ed amare. A volte mi sento in colpa perché non riesco a rispondere a queste sue offerte di amore, sento che anche lui ha bisogno di essere rassicurato, di poter placare le ansie di questo periodo così pesante. Sento anche la sua comprensione, sa che se mi nego è perché non ho le forze, che non è un rifiuto verso di lui e aspetta silenziosamente.
D’altra parte anch’io vivo in modo contraddittorio il mio stato di salute: mi rifiuto di mettermi in malattia, appena posso riprendo il mio posto in classe e gli incarichi (anche quest’anno molti e pesanti) assunti nella scuola e fuori, voglio frequentare gli amici, il corso di ballo cui ci siamo iscritti, continuare l’attività sociale e politica sul territorio, frequentare il gruppo a Corsico.
Il corpo mi tradisce, le forze mancano, me la prendo con me stessa se non ce la faccio, mi guardo e mi faccio pena, repulsione. Sono stanca, vorrei urlare che adesso basta, non ce la faccio più, che non ne posso più. BASTA!, BASTA!, BASTA!!!
La zia, mia figlia, mio marito si fanno carico delle fatiche usuali della casa, non so come ringraziarli e cerco di incanalare tutte le mie forze all’interno come se potessi convincere i farmaci a far bene, a far sempre più effetto, ma anche all’esterno: se non cederò, se non abdicherò potrò riprendere la vita di prima. Star fuori casa del resto mi fa solo bene, quando devo stare per forza in casa, quando mi trascino dal letto al divano e il solo cucinare mi fiacca, la mente galoppa fra nere paludi di ansie e ossessioni. Non c’è uno scenario sereno che si presenti alle mie fantasie: i farmaci non faranno effetto, le ricadute si succederanno, i capelli non ricresceranno più o se ricresceranno altre terapie provvederanno a farli ricadere, sono orribile, inguardabile, insopportabile.
E allora fuori, facciamoci carico di altri problemi, altre realtà, altre persone.
E’ una specie di cura scaramantica che pratico su me stessa. Ci credo veramente? Non so.

In tutto questo una svolta particolare prende il rapporto con gli alunni.
Non si spiegano le mie frequenti assenze, vedono il mio aspetto dimesso, percepiscono i discorsi con le colleghe. Del resto i bambini non capiscono perché una persona sulla quale sono abituati a far conto, la cui presenza è una delle sicurezze della loro giornata possa sparire all’improvviso, senza motivo e senza spiegazione. Ritengo che sia per loro una fonte di ansia molto più forte del sentirsi spiegare chiaramente la malattia e anche la morte. La nostra società, l’informazione televisiva, la famiglia nuclearizzata ci hanno abituato alla morte spettacolo, cruenta ed estranea, i bambini non vivono più il ciclo della vita dalla nascita alla morte come un’esperienza familiare, molto viene ospedalizzato, molto viene taciuto perché noi adulti abbiamo paura di parlare di certe cose. Così decido di parlare loro della malattia, ci penso su per tutto il fine settimana che precede il rientro da una assenza prolungata (due settimane di antibiotici, stomatite, febbre ed altre amenità), poi affronto il discorso: ricordo loro i miei precedenti problemi di salute, spiego che la malattia è peggiorata e che le cure richieste hanno una serie di effetti collaterali. La reazione di Ilaria è pronta: ”Devono cambiarti le medicine, le medicine devono far star bene, non male!!!”
Spiego come funziona la cura, hanno i visi attenti, assorti, forse un po’ spaventati ma certo si sforzano di capire. Chiedo il loro aiuto, mi scuso se non potrò essere efficiente come il solito e loro nel periodo seguente si danno da fare per consentirmi di stare seduta in cattedra durante le lezioni, si controllano a vicenda per permettermi di non affaticare la voce, fanno cordone sanitario per non attaccarmi il raffreddore, mi mandano messaggi e bigliettini quando devo assentarmi.
Sono una forza, una passione, un raggio di luce. Vado con loro per tre giorni in gita, le colleghe cercano di evitarmi le fatiche maggiori. Li vedo così felici di passare questo tempo insieme, così fiduciosi, così pieni di vitalità che mi sforzo di esserci il più possibile. E loro mi ripagano in mille modi, anche con qualche sana arrabbiatura.

E ancora una volta il sentiero si fa un po’ meno arduo, si rilevano i primi miglioramenti, si passa a terapie meno pesanti, le forze crescono un poco. A volte mi sembra di essere un leone e poi un minimo sforzo mi fiacca, allora scatta l’impazienza, spunta la sfiducia.
Qualcuno mi dice “Va beh, la malattia è cronica. L’importante è che lo resti per tanto, tanto tempo.”
Ohibò, non l’avevo ancora vista sotto questa luce
Un’estate che non è la solita estate, dentro e fuori dall’Istituto per le terapie, vacanze soggette al ritmo delle cure, scatti di impazienza e momenti di dolcezza.
Ho imparato ad essere più onesta con i miei, a dire più spesso quando una cosa non mi va o quando non ce la faccio. Anche mio marito rende più visibili i suoi stati d’animo, più con i gesti che con le parole, ed il nostro rapporto cresce e si consolida. Mia figlia è sempre presente, vicina, mi esorta spessissimo a far valere le ragioni del mio star male, a chiedere, anzi a pretendere attenzione, ad occuparmi di me stessa prima di tutto, a non vergognarmi dei miei limiti.
Nonostante tutto riusciamo a trascorrere qualche settimana in giro con il nostro camper e a divertirci un po’. Poi si torna a casa, lavoro, impegni.
Tutti mi dicono che mi trovano bene, non so se la cosa mi faccia piacere o paura. E questi benedetti capelli che crescono così piano. Durante l’estate ho preso il coraggio a due mani e me ne sono andata in giro senza parrucca. Ho imposto però la censura preventiva su tutte le foto.
Rientro a scuola e per due giorni mi arrovello su come presentarmi, alla fine decido di andarci così. Gli adulti fanno complimenti sul mio aspetto e sul Taglio che mi dona, i miei ragazzi sono sinceri. Alessandro mi squadra e domanda perché mai mi sono tagliata i capelli a questo modo, spiego l’effetto dei farmaci e la ricrescita. Si informano della mia salute, speranzosi chiedono se ora non dovrò più assentarmi, concludono “Non ci piaci tanto sai pettinata così, ma se vuol dire che stai meglio, va bene lo stesso. Ci abitueremo”
La prova del nove è un piccolo di prima che nel vedermi passare per l’atrio mi saluta con un sorridente “ciao pelatina”. Riesco a riderci sopra.

Penso a una collega che sostiene che queste esperienze non ci arricchiscono, ma si mangiano parte di noi. Per lungo tempo non ho saputo se avesse ragione o torto.
L’altalena di ansia e paura, il nuovo rapporto con la fine della vita, la sofferenza, la consapevolezza, il difficile percorso verso l’accettazione, la scoperta che la “passione” per qualcuno o verso qualcosa è indispensabile per andare avanti, mi fanno pensare, oggi, che abbia torto
Sono più ricca? Sono più grande?
Certo che ad ogni round perdo e ritrovo un po’ di me. Mi scopro e cresco, mi spavento e regredisco, mi piaccio e mi detesto.
Come sarò alla fine?

Fonte: www.qlmed.org


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